#6 | Bologna | 5 marzo 2024 Cara lettrice, caro lettore,oggi mettiamo in Macina un libro denso e profondo, uscito poche settimane fa: La dittatura (http://www.mulino.it/isbn/9788815388162) di ...

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#6 | Bologna | 5 marzo 2024


Cara lettrice, caro lettore,

oggi mettiamo in Macina un libro denso e profondo, uscito poche settimane fa: La dittatura di Carl Schmitt.

Lo facciamo innanzitutto per gli studenti che si avvicinano ai classici del pensiero politico. E lo facciamo con l’aiuto del curatore del volume, Carlo Galli, già docente di Storia delle dottrine politiche nell’Università di Bologna e socio dell’Associazione il Mulino, a cui abbiamo chiesto qualche consiglio per avvicinarsi alla lettura di Carl Schmitt ma anche di raccontarci l'arrivo di questo autore al Mulino: negli anni Settanta, quandto tradurlo e pubblicarlo sembrava un'operazione controversa.

 

1. Professore, immaginiamoci di fronte a una classe di studenti al primo anno di scienze politiche. Come si descrive Carl Schmitt? Qual è la prima cosa da dire per avvicinare le menti di oggi allo studio della sua opera?

Si può dire che Schmitt è uno degli autori più citati nella letteratura politologica, filosofico-politica e gius-costituzionalistica a livello mondiale; che è ingrediente fondamentale – alla pari di un gigante come Max Weber – della riflessione sulla politica e sul diritto pubblico, di ogni parte ideologica e di ogni orientamento intellettuale.

Che è fonte di stimoli e concettualizzazioni incessanti e che suscita tanto sdegni e demonizzazioni quanto innamoramenti e stupefazioni – è stato definito un cacciatore che cattura sempre qualche rara selvaggina. Che non lascia indifferenti perché unisce un grandioso talento, ai confini della genialità, con una incredibile erudizione e con una carica provocatoria fin troppo avvincente.

Che è un pensatore estremo, radicale, corrosivo, da maneggiare con cura ma da non ignorare perché l’alta cultura, che è quella che si pratica all’università, è tenuta alla critica ma non può esercitare la censura, e perché se si ignora Schmitt ci si preclude una chiave – non unica, certo discutibile, ma imperdibile – di comprensione della politica moderna e contemporanea.

E infine perché attraverso Schmitt si fa esperienza di che cosa sia un pensiero pensato all’altezza tanto della contingenza più drammatica quanto delle strutture essenziali di un’epoca.

2. Nella sua prefazione lei colloca La dittatura all’interno della «trilogia della prima maturità» fra Romanticismo politico e Teologia politica. Stiamo parlando di un libro uscito nel 1921. Ci aiuta a collocare l’opera? All’interno della biografia di Schmitt ma anche della Germania del tempo.

La dittatura nasce a Monaco negli ultimi anni della Prima guerra mondiale, quando Schmitt affronta per fini militari lo studio del significato politico e giuridico dello stato d’assedio. Ed è scritta nel momento in cui Schmitt passa da Monaco a Greifswald, poco prima che si stabilisca a Bonn.

È il prodotto di una fase creativa del pensiero schmittiano, della fase in cui l’autore scopre il significato giuridico, politico, epocale delle nozioni di decisione e di eccezione (ignote, secondo lui, ai romantici e al loro soggettivismo proto-liberale).

Dapprima a livello di filosofia del diritto (Il valore dello Stato, 1914; pubblicato dal Mulino); poi a livello di interpretazione della politica moderna (La dittatura); infine, nel 1922, con Teologia politica (presente nella silloge Le categorie del 'politico', testo d’esordio di Schmitt nel Mulino) la decisione sul caso d’eccezione diventa la chiave interpretativa delle strutture profonde dell’epoca moderna, in aperta antitesi rispetto a Kelsen.

La posizione di Schmitt – che va calata in un contesto di grande crisi e creatività politico-istituzionale, nei primi anni della repubblica di Weimar – è polemica verso il razionalismo, il liberalismo, il formalismo, il positivismo giuridico, e anche il pensiero dialettico: il senso ultimo della sua prestazione è che la ragione moderna esiste solo in quanto generata e attraversata in permanenza dalla non-ragione, appunto dalla eccezione e dalla decisione.

Il problema giuridico e politico della modernità è, secondo Schmitt, che il passaggio dal non-ordine all’ordine non è mai completo, e che tutte le istituzioni giuridiche e politiche, a partire dallo Stato, sussistono grazie a questa incompletezza, che è la loro vera essenza politica. Schmitt scopre il principio di indeterminazione nella politica, che trae la propria energia dalla esposizione ineliminabile all’eccezione, che solo la decisione può affrontare; la sola ragione non viene a capo dell’eccezione: non solo non le dà una forma ordinata ma soprattutto non ne capisce il ruolo e la forza.

3. Ne La dittatura Schmitt distingue tra «dittatura commissaria» e «dittatura sovrana»: la prima esercita l’autorità in uno stato di eccezione; la seconda è simile a un potere costituente, crea un nuovo ordine, è la dinamica delle rivoluzioni. Ci spiega meglio la differenza tra questi due tipi di dittatura, riconducendo alle due categorie qualche esempio storico?

Si tratta di due modi della originaria incompletezza della politica moderna, che non può essere mai interamente giuridificata e formalizzata. La dittatura commissaria è collocata all’interno di un potere costituito, in cui un sovrano ordina a un soggetto, il dittatore, di portare ordine dove c’è disordine. Qui l’elemento decisivo è il successo, il risultato effettuale e oggettivo; la situazione con le sue esigenze prevale sui vincoli giuridici: il diritto nasce dal non-diritto, l’ordine dal non-ordine. La dittatura commissaria difende un ordine minacciato dal non-ordine.

La dittatura sovrana, invece, crea un ordine nuovo a partire da un non-ordine radicale: il sovrano, in questo caso, è il popolo che esercita il proprio potere costituente, e il dittatore sovrano è una magistratura straordinaria la cui decisione fa nascere dal nulla (dalla grande eccezione rivoluzionaria)  un ordine nuovo, un nuovo ordinamento costituzionale.

In entrambi i casi politica e diritto non vanno disgiunti: il diritto, l’ordine, esiste solo perché è deciso, e d’altra parte la decisione non è forza bruta ma potenza orientata alla produzione di ordine. In entrambi i casi l’ordine non può essere compreso se lo si pensa solo come prodotto della ragione: il fattore eccezionale e decisionistico permane all’interno di ogni ordine realmente politico e realmente efficace.

Fra i molti esempi di dittatura sovrana Schmitt privilegia la Convenzione giacobina mentre interpreta il potere del presidente del Reich, previsto dall’articolo 48 della costituzione di Weimar, come il potere di un dittatore commissario che, quando il parlamento e il governo non funzionano (come nei primissimi anni Trenta) può intervenire per salvare la legittimità costituzionale anche sospendendo alcune parti della legalità (Legalità e legittimità è un libro del 1932, anch’esso pubblicato in Italia dal Mulino, in cui Schmitt sviluppa questo tema).
 


4. Il Mulino può definirsi l’editore italiano di Carl Schmitt. Nel 1972 pubblicammo per la prima volta Le categorie del politico, una raccolta di scritti usciti tra il 1922 e il 1963, tradotti da Pierangelo Schiera e presentati da Gianfranco Miglio. Lei è socio dell’Associazione che indirizza le politiche culturali della nostra casa editrice, ci aiuta a inquadrare quell’operazione editoriale? Qual è la relazione tra il Mulino inteso come luogo di cultura e il pensiero schmittiano?

L’operazione Schmitt fu rischiosissima e pionieristica: era allora un autore maledetto e censurato per la sua adesione al nazismo, da cui lentamente prese le distanze. Il suo sponsor per la pubblicazione fu uno studioso di rilevante spessore intellettuale come Gianfranco Miglio, di cui Schiera era allievo.

Vi furono ovvie resistenze iniziali, da parte di importanti giuristi molto interni alla vita del Mulino, ma Schmitt passò. L’allora direttore editoriale, Giovanni Evangelisti, prese la decisione giusta. Che risultò validata dal successo commerciale e dall’incredibile voracità con cui la cultura italiana, soprattutto ma non solo di sinistra, si gettò per prima in Europa su Schmitt e dalla rapidità con cui altri editori seguirono.

Io nel 1979 dovetti impegnare ottanta pagine fitte di una grande rivista, diretta da un grande studioso (i Materiali per una storia della cultura giuridica di Giovanni Tarello), per decifrare la già enorme fortuna italiana di Schmitt.

Il Mulino fece allora una scelta importante, ovviamente non ideologica, dettata da un’apertura mentale davvero notevole. Aggiungere Schmitt al grano culturale da conferire alla macina del Mulino non era una decisione ovvia: eppure la stessa cultura liberaldemocratica che caratterizza la casa editrice esce più consapevole di sé stessa dal contatto con la critica radicale di Schmitt.

E lo stesso vale per la cultura di sinistra, una parte della quale in Schmitt trovò le risposte a domande a cui il pensiero di Gramsci (quello ufficiale) non rispondeva soddisfacentemente (un’altra parte si rivolse invece a Rawls e a Habermas).

Oggi Schmitt è patrimonio di tutta la cultura italiana, che se ne serve a piene mani in ogni circostanza, con risultati a volte ottimi ma a volte anche problematici. Praticamente tutte le sue opere sono tradotte nella nostra lingua.

5. Cito dalla prefazione di Gianfranco Miglio a Le categorie del 'politico': «Schmitt ha scoperto e dimostrato che ovunque c’è politica là si incontra l’antitesi amico-nemico, e che ogni raggruppamento politico si costituisce sempre a spese di, e contro un’altra porzione di umanità». 
È questa l’antitesi fondativa di tutto il pensiero di Schmitt? O la principale contrapposizione è tra l’utopia del diritto e la realtà della politica?

Miglio era uno studioso creativo, originale. Seguendolo, direi che l’essenza del pensiero di Schmitt è che il Negativo non è eliminabile, che le relazioni interumane, anche quelle che paiono universali e pienamente giuridificate, sono sempre generate da una potenza particolare. Che non c’è mediazione che non abbia, alla propria origine, e in permanenza al proprio interno, una immediatezza. Che non c’è trasparenza senza opacità. Che dunque non c’è diritto senza non-diritto, senza conflitto. Ma anche, specularmente, che non c’è potenza che non debba rappresentarsi in un’idea di ordine, benché questa idea non possa mai del tutto inverarsi.

Si capisce bene perché questo pensiero sia una risposta polemica al marxismo che ha affascinato gli stessi marxisti, e spaventato ma anche sfidato i liberali.

6. A metà anni Settanta, esattamente cinquant’anni fa, il Mulino pubblica anche la Nazionalizzazione delle masse di George L. Mosse. Un testo che ricerca la radice dei fascismi europei nella modernità, in quella sete di «volontà generale» che tanta parte ha giocato anche nell’affermazione delle democrazie europee; ma quello stesso processo storico fu la premessa dei totalitarismi. Ancora oggi il libro di Mosse è un best seller della storiografia sul nazismo. In che relazione stanno questi due autori?

Mosse è uno storico e Schmitt è un giurista capace di profondità filosofica, il cui problema è, certo, che lo Stato delle masse – lo Stato che cerca di rispondere all'avanzata delle masse incorporandole non nella democrazia ma nel nazionalismo, e che in realtà non è più solo lo Stato borghese monoclasse perché le masse sono anche socialiste e non solo nazionaliste – non è più comprensibile con la concettualità liberale o con gli strumenti organicistici della dottrina generale del diritto.

Ma Schmitt non è un ideologo di destra, un populista reazionario. Per lui quel tipo di pensiero è anzi il problema (insieme al pensiero di sinistra e al pensiero liberale), non la soluzione; e infatti ha aderito al nazismo oltre che per ambizione personale anche perché vi vedeva un’opportunità di fondare un ordine nuovo dopo il fallimento dell'ordine di Weimar democratico, partitico, pluralista parlamentare.

7. Ultima domanda: i lettori più giovane, che aderisce più o meno consapevolmente ai valori della democrazia liberale, può uscire «sconvolto» dalla lettura di Schmitt. Il rischio è di allontanarsi ancora prima di capire?

Schmitt è un autore difficile, nelle sue opere di ricerca scientifica. Chi legge queste non può uscirne sconvolto, perché ha gli strumenti per comprenderlo. Se poi ne esce sfidato, stimolato da dubbi, direi che è una buona cosa. Anche gli studenti universitari possono e devono leggerlo, ma devono essere guidati da docenti esperti.

Le opere più divulgative di Schmitt, come ad esempio Amleto o Ecuba e Cattolicesimo Romano (edite dal Mulino), oppure Terra e  Mare e Teoria del Partigiano (edite da Adelphi), sono accattivanti e possono essere gustate anche da non specialisti.

Per oggi è tutto, a martedì prossimo!


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