Lionello Sozzi
Amore e Psiche
Un mito dall'allegoria alla parodia
Un brano dal testo |
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Capitolo II, Dalla "libido" alla "ratio", pagg. 15 e ss.
Quel che in noi rimane del mito di Amore e Psiche, sia che
ne conosciamo la fonte diretta, e cioè il racconto di Apuleio,
sia che la trama ci sia stata trasmessa da fonti intermediarie, è
l’episodio centrale, con l’immagine folgorante che l’accompagna:
Psiche accanto ad Eros addormentato, la lucerna accesa,
la goccia d’olio che cade su quelle carni eburnee, il dio che si
desta di colpo e subito scompare. Il racconto, si sa, è ben più
complesso, ma è quella l’immagine che s’incide nella memoria,
anche per effetto delle tante opere pittoriche che l’hanno
fissata, da Giulio Romano a Jacopo Zucchi, da Perin del Vaga
ad Heinrich Füssli a Joseph-Marie Vien. Perché quell’episodio
esercita una seduzione così viva? Probabilmente per l’idea
poetica che sembra sottenderlo, l’idea di un bene intravisto
e subito svanito, di un sogno che non può, che non deve
tradursi in realtà, di un’illusione che si dissolve non appena
vuol diventare tangibile e chiara evidenza, anche se molto,
anche recentemente, si è scritto sulla rilevanza del tema dello sguardo proibito. Siamo d’istinto orientati, cioè, verso un’interpretazione
di tipo romantico, legata a quell’idea di illusione
che da Rousseau a Leopardi, tra Sette e Ottocento, in termini
così vari e così onnipresenti percorre la cultura europea. Dice
Jean-Jacques, e Leopardi trascrive puntualmente nello Zibaldone,
che «rien n’est beau que ce qui n’est pas». Non è forse,
questa celebre frase, il miglior commento all’episodio centrale
dell’antico mito? Si tratta di un’interpretazione le cui avvisaglie,
ben inteso, possono anche trovarsi in epoche precedenti: per
La Fontaine, la favola di Amore e Psiche vuol dire appunto
questo, che all’uomo non è dato, senza inenarrabili pene, varcare
i confini del sogno. Ma in età romantica l’allegoria si fa
più evidente e più articolata: per tornare a Leopardi, egli vedrà
nella mitica fanciulla che accende il lume per contemplare il
volto del suo amante, e così lo perde per sempre, l’immagine
dell’umana bramosia, avida di scoprire verità che di fatto,
poi, dissolvono le illusioni e annullano ogni possibile felicità.
La favola di Psiche, dice Leopardi, sulla scorta, come meglio
vedremo, di un brano di Madame de Lambert, la favola cioè
dell’anima «che era felicissima senza conoscere e contentandosi
di godere, e la cui infelicità provenne dal voler conoscere»,
nasconde in sé la più profonda «sapienza e cognizione della
natura dell’uomo».
Interpretazione romantica, dicevamo, che probabilmente
oggi continua a sedurci (torneremo a parlarne), ma che forse
è anche la più discutibile, la meno aderente alla lezione del
mito, almeno per un motivo, e cioè perché in realtà, secondo
il racconto di Apuleio, Psiche non perde definitivamente, ma
solo provvisoriamente il suo bene, che ritroverà invece alla fine,
dopo lunghe traversie, quando sarà assunta nel consesso degli
Dèi, berrà l’ambrosia, cioè la bevanda che rende immortali,
sposerà Cupido e sarà madre celeste di Voluttà. Né coprono
interamente la semantica dell’episodio le altre interpretazioni
che nel corso dei secoli sono state date del nostro mito, da quella insieme voluttuosa e moralistica che caratterizzerà l’età
umanistica e rinascimentale, a quella edonistica e libertina che
prevarrà tra Sei e Settecento, a quella storicistica e progressiva
che sarà tipica del secolo della storia, a quella intimistica cui
si darà spazio in età decadente, a quella dissacrante e demitizzante
che forse ha caratterizzato le più recenti stagioni. Tutte ci
appariranno di singolare interesse, tutte riveleranno, di quella
semantica, un aspetto o un livello, ma nessuna ne coprirà interamente
le vaste, complesse e inesauribili dimensioni.
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