Marino Niola
Si fa presto a dire cotto
Un antropologo in cucina
Un brano dal testo |
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E il naufragar m'è dolce in questo Mars
pagg. 65-68
La mousse au chocolat non si mangia. È lei a mangiare
noi. Questo paradosso, molto in voga tra i
gourmands, fa pensare, più che alla semplice consumazione
di un dessert, a un abisso di piacere, un maelström
di voluttà che ci inghiotte, un mare di sensazioni allo stadio
fusionale, o fondente, in cui, leopardianamente, naufragare
è dolce.
Altro che merendina da bambini, altro che placebo
contro le carenze d’affetto. L’amara dolcezza del cioccolato
non è la sublimazione di una voglia matta deviata, come
in certe pubblicità televisive di praline somministrate a
una seduttiva signora in giallo da un ammiccante autista in
grado di interpretare alla lettera il suo ruolo di chauffeur,
che letteralmente significa «colui che dà fuoco». E niente
scalda come il cioccolato che ritempra il fisico, solleva il
morale e accende il desiderio. Del resto nella sua breve ma
intensa storia il «brodo indiano» non ha costruito la sua
fama nelle vesti consolatorie di un succedaneo di altri piaceri,
ma piuttosto quale esaltatore della voluttà, suscitatore
di erotismo raffinato. Nemico della precipitazione e per ciò
stesso alleato della seduzione e strumento della tentazione.
Al punto che nella pittura rococò il tema della cioccolata
sorbita nel boudoir da nobildonne coquettes circondate da
suadenti corteggiatori è un tema molto ricorrente. Come
dire: sesso e volentieri.
Dolce, morbido, potente, afrodisiaco. Un vero nettare
divino. Con questa fama la cioccolata irrompe nella gastronomia
dell’Occidente nel 1585, quando un galeone proveniente
da Veracruz sbarca a Siviglia il suo prezioso carico di
Amygdala pecuniaria, letteralmente «mandorla monetaria», poiché gli aztechi usavano come moneta di scambio le bacche
della pianta che il dio Quetzalcoatl in persona avrebbe
donato agli uomini insegnando loro a coltivarla. Cibo degli
dèi, la chiamavano i popoli amerindiani, né più né meno di
quel che significa il suo nome scientifico Theobroma cacao,
dovuto al grande naturalista svedese Carlo Linneo che tradusse
alla lettera l’espressione indigena.
Quando la cioccolata giunge in Europa diventa in
breve tempo simbolo di un gusto, di una cultura, di un
modo di sentire, persino di una religione, assurgendo ad
emblema della società barocca, cattolica, aristocratica, mediterranea.
Per tutto il Cinquecento la cioccolata conserva uno
spiccato colorito (e monopolio), spagnolo. Alla corte di
Madrid la dolce pozione diventa in breve un autentico
status symbol ed entra prepotentemente nel cerimoniale
di corte nonché in quello religioso. Ma che c’entra con la
religione una bevanda tanto caliente? C’entra moltissimo e
proprio per il suo alto valore energetico. Poiché secondo i
sacri canoni liquidum non frangit jejunum (un liquido non
interrompe il digiuno), con gesuitica agudeza la Chiesa vi fa
ampio ricorso, con la benedizione di Pio V, come surrogato
alimentare nei periodi di astinenza.
Con i primi anni del Seicento la cioccolata valica i
Pirenei e comincia a parlare francese quando Luigi XIII
– il protettore dei Tre Moschettieri – sposa la spagnola
Anna d’Asburgo, la sovrana cui D’Artagnan ricostruisce
il collier e l’onore. Con la regina arriva dalla Spagna anche
la cioccolata che alla corte di Francia si spoglia del
suo carattere severo e inquisitoriale per diventare la bevanda
preferita dell’aristocrazia più epicurea d’Europa.
È tra le imponenti gallerie del Louvre e le sfarzose sale
del Luxembourg che l’erotizzazione, e l’estetizzazione,
della cioccolata esce dalla semiclandestinità ispanica per
trasformarsi in un’aperta rivendicazione della sensuale
mollezza mediterranea contro l’asciutta parsimonia protestante
incarnata invece nel borghesissimo caffè, nemico
dell’eros e alleato del lavoro, che eccita la mente a scopi
esclusivamente produttivi.
Madame de Maintenon, favorita del Re Sole, andava
matta per la cioccolata mentre la Pompadour e la Du Barry,
potentissime amanti di Luigi XV, ne facevano un afrodisiaco
prolungamento delle loro performance erotiche. Non era da
meno la sfortunata Maria Antonietta che la testa l’aveva
persa prima ancora di salire sul patibolo, ma per le praline
e i bonbon, al punto che non faceva un passo senza il suo
fido chocolatier. E se Casanova ne consacra la fama erotica
innalzandolo a Viagra del secolo dei Lumi, il mangiapreti
Voltaire fa del cibo degli dèi la sua unica religione, il suo
indiscutibile articolo di fede. Pare che solo a metà giornata
l’autore del Candide ne avesse già bevute 12 tazze. Mentre
il divino Mozart nel primo atto del Così fan tutte ne fa il
simbolo del privilegio aristocratico: «È mezz’ora che sbatto;
il cioccolatte è fatto, ed a me tocca restar ad odorarlo a
secca bocca?», canta l’astuta serva Despina mentre monta la
cioccolata per il languido risveglio di Fiordiligi e Dorabella,
le sue civettuole padroncine napoletane.
Bevanda per antonomasia ancien régime, la cioccolata e
i suoi rituali declinano con quel mondo splendente e iniquo
per lasciare il posto al meno energetico cacao ottenuto
grazie a un procedimento scoperto solo nel 1820 dall’olandese
Conrad Van Houten, che riesce a estrarre dai grani
della pianta tutto l’olio rendendo il cacao meno grasso e
nutriente, ma in compenso più facilmente digeribile.
È l’inizio di una modernizzazione, e di una normalizzazione,
che farà della cioccolata una bevanda e un cibo
per donne e bambini. Forse non è un caso che tale trasformazione
sia opera di due paesi protestanti: l’Olanda, che
diventa il primo produttore di cacao, e la Svizzera calvinista,
che, come amava ricordare Orson Welles, arricchisce
l’umanità con l’invenzione della tavoletta al latte dovuta a
Daniel Peter e Henry Nestlé.
La storia della cioccolata, e del cioccolato, è fatta dunque
di spostamenti progressivi del piacere dalla gourmandise
alla ghiottoneria, dall’eccitazione del desiderio alla soddisfazione
dell’innocente golosità di donne e fanciulli. Non
a caso il grande Brillat-Savarin nella Fisiologia del gusto
distingue nettamente la grande gourmandise dalla ghiottoneria rivolta unicamente ai cibi leggeri e delicati, come
cioccolatini, pasticcini, bonbon e simili, ed è «tipica delle
donne e degli uomini che assomigliano alle donne».
Nell’era del gusto light, in cui non passa giorno che
non venga messo alla gogna qualche piacere alimentare, la
cioccolata, dopo essere stata a lungo criminalizzata da un
neoascetismo che nasconde spesso il suo istinto penitenziale
sotto le mentite spoglie dell’alimentazione corretta, ritorna
da trionfatrice grazie ai magici ultrapoteri dei flavonoidi
e all’euforizzante taumaturgia della teobromina. Ragioni
edificanti per tentazioni antiossidanti.
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