Arrigo Levi
Un paese non basta

 Un brano dal testo

Postfazione, da pag. 277

Quando cominciai a pensare a questo libro, non avevo dubbi sull’intenzione di scrivere non una storia della mia vita e del mio lavoro di giornalista, ma soltanto un racconto di «come diventai giornalista» – che era poi il titolo che dapprincipio avevo in mente. E sapevo già che l’avrei concluso raccontando dei miei anni di Londra, gli anni Cinquanta. Non sapevo altrettanto chiaramente da dove cominciare.
Rileggendolo, prima di porre la parola fine, mi sono chiesto se non sia andato troppo indietro nel tempo alla ricerca delle mie radici. Mi chiedo se non mi sia lasciato prendere troppo dall’entusiasmo, nell’entrare, al Finale di Modena, in quella che fu la casa porticata del mio arcitrisavolo Nathan Nathan, italianizzato in Donato Donati, che importò nel ducato un cereale sconosciuto e prezioso, utile per sfamare i sopravvissuti alla grande peste manzoniana. Pensandoci bene, direi di no. Mi ha commosso e reso pensoso riscoprire la lapide in ebraico di quel Nathan Nathan, ebreo credente, che aspettava la fine dei tempi per vedere premiata la sua fede e la sua laboriosità. Ho ereditato assai poco della sua pratica religiosa. Ma le sue regole di vita, fondate in quell’antichissima fede, mi sembra siano state tramandate, di padre in figlio, di generazione in generazione, fino ai miei immediati predecessori. E poi, Nathan Nathan era già un «cittadino del mondo», guardava a lontani orizzonti, veniva da chissà dove e aveva contatti con i più lontani paesi. La sua qualità di «ebreo errante» ne faceva già un cosmopolita. E non lo sono forse diventato anche io, come tanti altri ebrei del passato, per ragioni, ahimè, spesso drammatiche?
[...]
Non parliamo poi di quei miei bisnonni o trisavoli dell’Ottocento, che parteciparono con entusiasmo alle lotte per il Risorgimento, che gustarono il sapore forte dell’emancipazione, della libertà di essere quello che erano, eguali e diversi dagli altri, come sono tutti gli uomini. L’eredità che mi hanno lasciato è chiaramente riconoscibile. È grazie a loro se sono italiano. È anche grazie a loro se ho ereditato un culto della libertà dei popoli, un rispetto per l’identità altrui, che penso sia stato un principio assai utile per il mio lavoro di giornalista, durante tutta la mia vita.
Debbo poi dire che ho trovato alcune di quelle antiche storie meritevoli d’essere rievocate e raccontate, a parte il fatto che in esse io riconosca una parte di me stesso, perché mi sono sembrate curiose, e poco conosciute. La natura profonda di un giornalista rimane quella del cronista, del raccontatore di storie. Ho raccontato tante storie nel corso della mia vita, questa non l’avevo mai raccontata, e spero non sia dispiaciuta.
Per un po’ di tempo ho pensato che nel capitolo conclusivo di questo mio racconto avrei lanciato uno sguardo profondo e lungimirante, che suscitasse nel lettore sentimenti di giusta ammirazione per la mia saggezza, verso i più lontani orizzonti, spaziali e temporali. Nientemeno che uno sguardo nel futuro: non mio, ma, ovviamente, dell’umanità. Senonché, mi sono accorto che il futuro continua a cambiare così rapidamente da prestarsi soltanto a quella rappresentazione «istantanea» che ancora mi accade di darne, come giornalista, nei miei articoli. Forse vale soltanto la pena di registrare rapidamente, per quel che valgono, alcuni dei sentimenti che provo guardando al futuro, senza, per carità, pretendere che il lettore li condivida.
Speranza e paura si alternano nella mia mente, guardando al futuro e pensando al passato. La vita che ho vissuto, le esperienze che ho fatto, mi lasciano un’eredità incerta. Sono stato testimone di eventi orrendi, ma anche di miracolose rinascite, di vere e proprie resurrezioni, di imprevedibili riconciliazioni tra popoli per secoli nemici, capaci di giustificare quella fede nel futuro che è propria di chi crede in un Dio-Provvidenza, dotato di onnipotenza, capace di salvare gli uomini anche quando si dimostrano incapaci di salvarsi da sé. Purtroppo non condivido questa fede, ho soltanto una fede trepida nell’umanità. Non credo che ci sia un Dio disposto a salvarci se non lo aiutiamo a salvarci. Ma chi siamo noi?
Mi capita talvolta di vedere, con una profonda apprensione, e in verità con orrore, programmi televisivi che rievocano le secche marce hitleriane, le acclamazioni delle folle entusiaste a piazza Venezia, le celebrazioni militari sulla piazza Rossa davanti a Stalin, immagini che si alternano a quelle delle rovine di città distrutte, o dei campi di sterminio come si presentarono allo sguardo attonito ed incredulo dei «liberatori»: quei volti smunti, quegli occhi vuoti, quelle membra distrutte. Questo non è un remoto passato, è soltanto lo ieri della nostra vita. Come abbiamo fatto a lasciarcelo alle spalle? E siamo sicuri che non farà ritorno? Noi «occidentali» non abbiamo diffuso nel mondo soltanto il culto della libertà, dell’uguaglianza, della fraternità. Abbiamo inventato la democrazia moderna, e pare che da qualche anno gli stati democratici (o che si dicono tali) siano in tutto il mondo la maggioranza. Ma anche il nazionalismo, anche il razzismo, anche il totalitarismo sono frutti della cultura occidentale. Anche questi virus siamo noi che li abbiamo creati, contagiandone altri popoli.
Accade poi che io sia assai più consapevole della maggioranza di tutti coloro che conosco, del pericolo di distruzione globale che incombe su tutta l’umanità, dopo la scoperta delle «armi di distruzione di massa», che non saranno mai più disinventate, per tutto il tempo della storia della specie umana. Con il rischio che un giorno essa stessa ponga fine, consapevolmente o senza sapere quello che fa, alla sopravvivenza degli uomini e forse di ogni forma di vita sul pianeta Terra. Già oggi ha i mezzi per farlo. E così sarà per sempre. Per tutti i secoli dei secoli avrà il potere di farlo. Saprà come farlo. E potrebbe farlo.
Questo timore non mi abbandona, anzi cresce, con la proliferazione nucleare in atto, e con la possibilità che entrino in possesso di armi atomiche non soltanto stati responsabili della sopravvivenza del loro popolo, ma fanatici che vivono in un mondo di sogni, o di incubi. Trovo giusto che questi miei timori non mi abbandonino e che io, con quel tanto di voce che mi è stato dato, continui ad esprimerli, come fanno altri, consapevoli come me, e con maggiore autorevolezza, di questa immane spada di Damocle che rimane sospesa sul nostro avvenire. A volte penso che siamo tutti cassandre destinati a rimanere inascoltati da chi preferisce non sapere. Ed è comprensibile, ma quanto pericoloso, questo rifuggire dei più dalla coscienza del mondo come è, del mondo in cui noi viviamo e in cui vivranno tutte le generazioni future.
[...]

Alcuni, come La vecchiaia può attendere, o i due volumi sul dialogo tra fede laica e fede religiosa, hanno avuto origini e motivazioni diverse. Il libro sulla vecchiaia, con la tesi ottimistica che essa possa attendere, era la risposta a timori esattamente opposti, tipici della svolta dei settant’anni. Oggi, dopo la svolta degli ottanta, so che la vecchiaia può attendere, ma non sempre lo fa. Forse per questo le cose che faccio le faccio sempre più di fretta.
Quanto ai libri sulla fede, chi ha avuto la pazienza di leggere fin qui questo libro sa che essi affondavano le radici in quella che definirei «la mia vita non vissuta», un progetto di vita che avevo abbandonato, senza rimpianti, ma senza dimenticarlo, quando, all’età di venticinque anni, avevo fatto la saggia scelta sintetizzata in tre parole: Lina, Donatella e giornalismo. Per i nuovi e ormai vecchi amici, illuminati da una calda fede religiosa, ecumenica e aperta al dialogo anche con i «credenti laici» come me, che ho incontrato in questo tardivo abbozzo di vita alternativa, nutro lo stesso affetto e gratitudine che provo per i compagni della mia lunga avventura giornalistica. Non so quanto di buono abbiamo fatto. Ma «ci abbiamo provato».
Concludo rispondendo ai tanti che mi hanno chiesto se non sia tentato di raccontare qualcosa dei miei anni al Quirinale. Per mia fortuna, c’è chi ha già scritto (Paolo Peluffo) splendidi libri sul settennato di Carlo Azeglio Ciampi. Non mancherà chi farà altrettanto per la presidenza Napolitano (nessuno saprebbe farlo meglio di lui). Dirò solo che si è trattato di una bella esperienza. Ho sempre amato (anche se i giornalisti sono un po’ animali solitari) lavorare insieme a una squadra di amici, per scopi giusti e con motivazioni giuste. Nei nostri anni al Quirinale, ci è accaduto qualcosa del genere, al seguito di personaggi di alta statura morale e civile. Ed è stato bello.
Come giornalista, mi è capitato talvolta di essere anche il capofila della squadra. L’esperienza, così intensa e drammatica, degli anni della direzione della «Stampa», che furono anche gli «anni di piombo», rimane l’esperienza di lavoro più appassionante e indimenticabile di tutta la mia vita.
Accade talvolta – accadde a noi a Torino, e non solo a Torino, negli anni Settanta – che un giornalista, da semplice cronista degli eventi, ne diventi partecipe e corresponsabile: in qualche caso non per sua scelta, ma in risposta a una sfida che gli viene lanciata. Un giornalista non racconta soltanto fatti, ma propone, e necessariamente difende, in momenti critici, anche valori. La forza delle cose può così portare il suo lavoro su una sfera un poco più elevata di quella del semplice cronista dei fatti e delle idee altrui. Soprattutto in queste circostanze, è importante avere accanto dei compagni di lavoro che condividano le tue stesse idee, i tuoi stessi obiettivi.
Si creano allora legami fortissimi, amicizie che da sole giustificano, assai più di qualsiasi riconoscimento altrui, la scelta fatta di vivere una vita di giornalista.


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