Robin Dunbar
La scimmia pensante
Storia dell'evoluzione umana
Un brano dal testo |
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Cap. V. L’idillio nella foresta, pagg. 96 e ss.
Le nostre prime immagini degli scimpanzé allo stato
brado erano quasi idilliche. Gli scimpanzé, a quanto pareva,
vivevano in comunità di 50-80 individui. Si aggiravano nelle
foreste in cerca di frutta e bacche, si stendevano all’ombra
sopra i rami più alti degli alberi nelle ore più calde del
giorno, pescavano astutamente le termiti, tirandole su con
un lungo filo d’erba preparato allo scopo, che poi passavano
alla loro agitatissima prole, nella migliore tradizione
delle torte di mele e della tenerezza materna. Un quadro
davvero gradevole. C’era la dolce Flo, la grande matriarca,
che si prendeva cura dei piccoli Fiban e Figan (destinati
al ruolo di maschio dominante del gruppo), e tollerava
l’irruenza nel gioco della piccola Fifì, la sua ultima nata,
partorita poco prima dell’arrivo di Jane Goodall nel parco
di Gombe e destinata a sua volta a partorire un primo
maschio che la nonna avrebbe contemplato orgogliosa, il
piccolo Freud. Quelli, sì, erano giorni felici e lietamente
pigri, quando ci si poteva rilassare distesi nell’ombra della
foresta, mentre una tiepida brezza tropicale cullava dolcemente
la cima degli alberi e gli insetti ronzavano festanti
sui fiori. C’erano novità e scoperte eccitanti – si assisteva
ai primi tentativi di pesca delle termiti, si cominciavano a
usare strumenti, e anche a costruirne. Flo perfezionava le
sue competenze di madre, distraendo pazientemente Fifi,
sempre testarda e irrequieta, con giochi divertenti.
Certo, ogni tanto c’era qualche esplosione di furia di
uno dei maschi più ambiziosi o di qualche altro che intendeva
sfidare la gerarchia della comunità. Ci potevano
essere esibizioni terribili di aggressività, che obbligavano
tutti gli astanti, scimmie ed esseri umani, a cercare rifugio
e copertura, mentre maschi rigonfi di un manto bellicosamente eretto impazzavano all’intorno, erompendo dai
cespugli del sottobosco in un fragore di rami schiantati,
travolgendo deliberatamente femmine e piccoli innocenti,
gettando rami e fusti divelti di giovani alberi davanti a sé,
senza preoccuparsi di quelli che avrebbero potuto colpire.
Ma la pace sarebbe tornata con la stessa rapidità fulminea
con cui si era prodotto il tumulto, appena l’onore maschile
avesse trovato soddisfazione e i protagonisti esausti dello
scontro si fossero issati e distesi sulla forcella di due grandi
rami di un albero, chiusi in un altezzoso disdegno. Tradotto
in termini umani, tutto questo non andava molto oltre una
scorribanda di giovinastri rumorosi con le loro moto nella
strada principale del paese, il sabato pomeriggio – un caso
già chiuso e archiviato la domenica mattina, nel raduno
collettivo in chiesa.
Qualche volta, c’era chi, in queste esibizioni, mostrava
un talento particolare. Anche se più piccolo della maggioranza
dei maschi che in quel tempo facevano parte della
comunità, Mike aveva scoperto di poter intimidire i suoi
rivali sino a sottometterli, scagliando con furia i barili vuoti
di cherosene che erano stati accatastati con cura nell’accampamento
della Goodall. I barili non producevano solo un
rumore particolarmente, e piacevolmente, risonante, se venivano
sbattuti l’uno contro l’altro; erano anche in grado di
causare un danno notevole – anche se superficiale – quando
colpivano qualcuno. Mike riuscì a farsi strada sino ai vertici,
grazie alla sua ingegnosità, più che alla capacità di sostenere
una rissa.
Nel frattempo, a poche centinaia di miglia di distanza,
più in alto, nelle foreste alpine dei vulcani Virunga del
Ruanda, vicende molto simili a queste avevano come protagonisti
i gorilla studiati da Dian Fossey e altri ricercatori. In
effetti, la reputazione dei gorilla era stata ripristinata dagli
studi condotti sul campo in Ruanda, dapprima dal formidabile
biologo George Schaller e successivamente dalla Fossey
e dai suoi studenti. Prima di allora, la reputazione dei gorilla
si era basata sul modello esemplificato da King Kong,
grazie soprattutto ai racconti di cacciatori, che sarebbero
stati inseguiti da maschi infuriati e decisi a difendere il loro gruppo, o alle storie che si trasmettevano diffusamente, e a
voce bassa, sui bambini (e talvolta le donne) che sarebbero
stati rapiti dai gorilla, appostati al limite dei villaggi, e che
sarebbero poi stati divorati (o persino violentati) da questi
terribili animali. Le dimensioni dei gorilla (un adulto può
pesare 140 chili), e la determinazione feroce con cui i maschi
difendono il loro harem di femmine nei confronti di
qualsiasi tipo d’intruso, avevano senza dubbio contribuito
a questa fama sinistra. Un maschio adulto lanciato alla carica
giù per il pendio di una collina può essere uno spettacolo
davvero spaventoso, specialmente quando – come una
volta accadde a un mio collega – il gorilla, progressivamente
sempre più allarmato, si rende conto che il proprio peso e
l’inclinazione della discesa sono tali che, sommati, non gli
permetteranno di decidere quando fermarsi.
Una volta però che, negli anni Sessanta del secolo
scorso, ebbero preso l’avvio studi seri sul campo, la realtà
della vita dei gorilla si manifestò come un ciclo straordinariamente
monotono di biascicamenti di erbe insipide,
intervallati da lunghe e pigre pause di laboriosa digestione,
accompagnata da brontolii di stomaco nel calore del sole
pomeridiano o da quieti trasferimenti nella brughiera, da
un colle all’altro. I gruppi di gorilla sono piccoli (di regola
inferiori ai dieci individui), fortemente coesi e apparentemente
ben adattati. Le informazioni raccolte su questo
gigante cortese non fecero altro che rafforzare l’impressione
che le società delle scimmie antropomorfe fossero più simili
a una comunità di gentiluomini e gentildonne dei bei tempi
andati che a qualsiasi altro gruppo.
L’unica nota stridente, in questo coro, era l’orango. La
scimmia antropomorfa rossa – come l’orango venne ben
presto chiamato – che era stata studiata, a Sumatra e nel
Borneo, da una serie di giovani e brillanti antropologi e zoologi,
all’inizio parve inserirsi nel quadro di idillio pastorale
che proprio allora si stava affermando. Mai troppo portati
a socializzare, anche nei momenti migliori, gli oranghi si aggiravano
nelle foreste della loro isola prevalentemente soli,
oppure in compagnia dei giovani ancora dipendenti. Ma i
maschi ingaggiavano anche lotte feroci e sanguinose, quando, nel loro girovagare, avevano occasione d’incontrarsi.
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