Adolfo Scotto Di Luzio
Napoli dei molti tradimenti
Un brano dal testo |
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Capitolo I. Generazioni , pagg. 14 e ss.
Avevo ascoltato La ballata di Pinelli fin da bambino
in casa dei miei. Facevo suonare un trentatré giri con la
copertina verde e al centro un tondo bianco con la foto
sgranata di un ribelle urbano inizi Novecento in mezzo a
due Carabinieri. Tricorno e pennacchio in testa. A memoria
il disco era intitolato Canzoni popolari e di protesta, vol. I.
La ballata era l’ultima traccia del lato B.
Non avevo dubbi allora, come non li ho avuti mai in
seguito, che Pinelli fosse innocente. A quel tempo però non
mi veniva in mente che nel caso specifico, e in ogni caso,
l’innocenza proclamata nel testo della canzone valesse per
il singolo e non per il fatto di essere un compagno.
Diversamente da quello che ero portato a credere in
quegli anni Pinelli era innocente non perché fosse un anarchico
ma perché non aveva messo la bomba alla Banca dell’Agricoltura.
Questo problema della responsabilità individuale e della
sua scomparsa nell’anonimato dei «soggetti collettivi» ha
rappresentato un elemento decisivo della mia diseducazione
morale e sentimentale.
Il reciproco di «un compagno non può averlo fatto»
è «finché la vostra violenza si chiamerà giustizia, la nostra
giustizia si chiamerà violenza». Campeggiava stentoreo ed
eroico a metà degli anni Ottanta, in una stazione sotterranea,
dalle parti di Fuorigrotta, ad annunciare il confine tra
l’insediamento operaio di Bagnoli e la promiscuità sociale
dei quartieri popolari del centro storico. Lo vedevo tutte le
mattine dal trenino che dai quartieri suburbani dove abitavo
mi portava in città, al ginnasio-liceo Antonio Genovesi.
Anche se non l’avremmo mai riconosciuto in questi termini
così crudi, per noi la violenza politica era giustificata
sempre e comunque. Rappresentava la manifestazione della
spontaneità della comunità popolare resistente. Ed era una
forma della sua capacità di auto-organizzazione. A quattordici
anni consideravamo una provocazione il volantinaggio
del partito umanista all’uscita della scuola. A loro che si
proclamavano non violenti obiettavamo, da cazzoni, che la
violenza è la levatrice di una società gravida di vita futura.
Uso il plurale non per camuffarmi, ma perché a quei tempi
eravamo almeno in due.
Erano frasi che non ci impegnavano nemmeno un po’.
Non saremmo mai stati in grado di sostenerle sul piano
pratico. Le avevamo sentite e le ripetevamo.
Dopo il terremoto e nel clima tesissimo di quegli anni
(Cirillo venne rapito nell’aprile del 1981 dalle brigate rosse),
ogni volta che c’era un’assemblea, il preside del liceo ci
chiamava e ci faceva un discorso preoccupato sulla propaganda
del partito armato. Gli adulti responsabili in quegli
anni dovevano essere angosciati. Noi non vi facevamo la
benché minima attenzione.
Naturalmente negli anni Ottanta, al liceo, sono andato
a tutti i cortei contro la camorra e per la legalità. Non sentivamo,
né io né gli altri, nessuna contraddizione in questo,
né l’avremmo sentita rispetto alle nostre scelte future. Per
noi la camorra sovrastava la comunità popolare senza intaccarne
la viva cordialità: la sua risata schietta, la sofferenza
viva, la parola sincera, aveva scritto Cesare Pavese.
Nel discorso pubblico di quegli anni e nelle sue metafore
ricorrenti la camorra era come una metastasi, il cancro
di cui la città sana, e le sue forze migliori, si sarebbero
finalmente sbarazzate. Non solo la nostra politica era approssimativa,
ma le nostre stesse conoscenze mediche, scarsissime,
ci consentivano di vivere al riparo di un’illusione.
L’illusione è stata una modalità decisiva nel rapporto
che abbiamo stabilito con la città e la sua storia.
Era come guardare a Napoli e al suo degrado con il
terzo occhio della Grande magia di De Filippo. Che poi
questo terzo occhio non l’avessimo scoperto noi, dice solo
da dove ci venivano certe idee, ma non attenua le nostre
responsabilità. Avevamo lo sguardo costantemente puntato
sopra «il tesoro ai piedi dell’arcobaleno». E questo ci permetteva
di non vedere.
Napoli ci era al tempo stesso estranea ed indispensabile.
Tendevamo da un lato a metterla da parte, per quel
suo inassimilabile tratto plebeo. Innamorati com’eravamo
dell’idea della classe operaia, quel popolo sciatto e vociante
era troppo concreto, troppo rumoroso. Se ne sentiva troppo
l’odore. Eppure, con le dovute cautele dovevamo stargli il
più vicino possibile, perché questo ci dava il senso di una
pienezza e insieme era il massimo di avventura che riuscivamo
a concederci.
Il fatto è che saremmo certamente morti di paura se
fossimo venuti veramente in contatto con i fatti criminali
di cui eravamo gli svagati commentatori. E anche dopo,
a trent’anni, in quell’appartamento vicino alla Reggia di
Capodimonte, non eravamo molto diversi dagli adolescenti
che eravamo stati. Ma lì, al riparo delle mura domestiche e
delle nostre spiritosaggini, durante quelle cene, ci sentivamo
nel posto giusto. Vicini all’autentico. Finalmente.
Per la verità a quell’epoca non avrei avuto neanche il
coraggio di affacciarmi in uno dei bassi che vedevo dalla
finestra del mio appartamento.
Proprio di fronte a me, giù in strada, abitava una coppia
di mezza età. Lui più alto e grosso, con una gamba
rigida che gli dava un’andatura scoordinata. Lei bassa e
grassa, con dei capelli crespi che quando non erano raccolti
e acconciati in qualche modo sembrava una strega. Erano
gentili e guardinghi.
Erano soprattutto esposti alla strada. Alle auto, che
passavano a tutta velocità in un vicolo strettissimo, o all’indifferenza
di quelli che parcheggiavano facendoli letteralmente
prigionieri nel loro terraneo. Dovevano fronteggiare
l’arroganza degli adulti e la crudeltà dei bambini. A Napoli
conviene essere sani, perché nessuno ha pietà degli storpi.
Tra i due, come spesso capita a Napoli, il lavoro duro
toccava sempre a lei. Si difendeva urlando. Usciva dal basso
come una furia. Si copriva di macchie rosse in faccia e sul
petto. A quel punto il marito compariva sulla soglia, metteva
le mani sui fianchi e si girava intorno alla ricerca di solidarietà
e di consenso. Qualcuno con il quale condividere
l’indignazione del momento. Non è mai uscito per primo.
Ma la strada non sono solo gli uomini. In una casa al
livello del marciapiede, in cui entrare significa scendere
dei gradini, la minaccia vera viene dai topi. Quei due si
difendevano con una tavola in compensato, la mettevano
di traverso nel vano di ingresso. Riuscendo così a tenere
la porta aperta, partecipavano alla vita della strada e ne
provavano a tenere lontano il male. Nessuno li avrebbe mai
convinti ad andarsene di lì.
L’unica istituzione presente nel quartiere era la Chiesa.
C’era è vero la sezione del vecchio Partito comunista, poi
Ds, ma i comunisti restavano sulle generali. L’arredo urbano,
la riqualificazione, l’isola pedonale. Quelli si appassionavano
soprattutto al dibattito interno, allo scontro delle
fazioni, D’Alema, Veltroni, i fax. Il partito kennediano e
l’ipotesi socialdemocratica. Come più tardi l’unica cosa che
conterà, in mezzo alle montagne di rifiuti, saranno gli equilibri
del nuovo Pd.
Gli unici che avevano il coraggio di toccare la povertà
erano, come sempre era stato, i preti.
[...]
Oggi a distanza di anni mi viene da pensare che l’amore
per il popolo così come l’abbiamo coltivato fin verso i
trent’anni costituisca una forma dell’immoralità politica.
Occulta la verità e mistifica i processi reali.
Ero convinto, e con me molte delle persone che frequentavo,
di aver consumato ogni nostalgia per l’armonia
perduta e che questo mi mettesse al riparo, me e la mia
generazione «moderna», dal rischio di giocare a «fare i napoletani
».
A quattordici anni Ricomincio da tre ci aveva insegnato
che la nostra identità non poteva che essere critica; che era
tale il peso degli stereotipi che ci portavamo dietro, che per
dirci napoletani dovevamo cominciare col dire «no, non
sono un emigrante, viaggio per turismo». Eravamo soddisfatti
di questa possibilità che ci veniva offerta di prendere
le distanze.
Eppure eccoci là, a trent’anni, vicini al popolo. Con
l’idea che dovessimo unificare quello che la storia aveva diviso,
gli intellettuali (noi) e la plebe (i nostri vicini di casa)
e che per fare questo c’erano le canzoni e il dialetto. Lo
spirito e la voce autentica del popolo.
Raffaele La Capria sorride sornione.
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