Piero Boitani
Sulle orme di Ulisse

Un brano dal testo

Capitolo XIII, Gli allievi di Ulisse, pp. 115 e ss.

Credi che tanto si siano per il mondo
spinti Enea e Ulisse, il facondo?

Non ebbi il tempo – non lo volli avere – di godere a lungo quella gioia. Sopprimere l’impulso a partire dopo essere tornati a casa è impossibile. Non c’è – lo sapevo ormai – dolcezza di figlia, né pietà del vecchio padre, né debito amore lo qual debba Penelope far lieta, che tengano. La predizione di Tiresia è la verità perché nessuna vita si chiude mai fin quando non venga, dall’altra sponda del mare, la morte; perché fino ad allora il viaggio non finisce.
E la terra che non conosce le navi, i remi, il sale, non esiste su questa Terra.
Me ne accorsi, letteralmente, un mese dopo, quando partii per l’Estremo Oriente: Hong Kong, Giappone, Macao, il primo viaggio verso l’Est vero, remoto. Andavo a parlare di Ulisse in paesi che certo nulla avevano saputo di lui. L’ultimo Occidente, quello sì, per forza, era intrinseco dell’eroe: italiani, spagnoli, portoghesi, inglesi ve lo avevano proiettato con astuzia e violenza. Ma l’Est no: doveva, così assorbito dai suoi miti, così chiuso verso l’esterno, esserne rimasto immune.
Sbagliavo, ancora una volta. Partii alle nove di sera. Poche ore dopo, mentre l’aereo dormiva, era già disteso mezzogiorno in Oriente. Alzai in silenzio la cortina dell’oblò. Filavamo altissimi sulle pianure indiane, alla mia sinistra l’intera catena bruna e bianchissima dell’Himalaya, immensa ossatura del mondo. Qualche ora più tardi, le cento insenature celesti del mar della Cina: il Catai.
Appena giunto a Tokyo, il mio collega ed amico Toshiyuki Takamiya si premurò di informarmi che due studiosi del suo paese avevano sostenuto che la leggenda nipponica di Yuriwaka daijin era in realtà basata su quella di Ulisse, narrata dai portoghesi al loro sbarco, nel 1543 (il nome, che in giapponese si pronuncia «Yuliwaka», riecheggerebbe quello del suo prototipo). Mi procurò anche tutta la documentazione relativa, gettandomi nella più nera disperazione. Infine, mi indusse senza volerlo a una vera e propria, tripla, odissea nel centro stesso dell’enorme capitale.
Mi comunicò che in città veniva proiettato un film su Ulisse, scrivendomi poi su un foglio, in giapponese, il titolo, il cinema e l’indirizzo, e trascrivendo quindi il tutto in inglese. Il film si chiamava, nella sua traduzione, The pupils of Ulysses, e confesso che a me, che sono un professore di letteratura e non un oftalmologo, dette un’immediata scarica di adrenalina: che bello, pensavo, un nuovo film, per di più giapponese, sugli allievi – gli studenti – di Ulisse! Presa la metropolitana e districatomi in quell’Ade senza troppe difficoltà, riemersi in uno dei cento centri di Tokyo, e mi persi immediatamente: i nomi delle strade non erano traslitterati.
Iniziò così una peregrinazione durante la quale chiesi a numerose Sirene dove trovare il cinema e il film che mostravo loro sul foglio. Mi cantavano, in risposta: «rlight, rlight » (che può voler dire «giusto» o «dritto» o «a destra»). Dopo varie peripezie, giunsi dinanzi a quello che mi pareva un botteghino. Esibita la carta, la Circe che sedeva dietro il vetro prese i miei soldi, mi infilò in un ascensore e, accompagnandomi sino al dodicesimo piano, mi introdusse in una sala, buia come l’antro del Ciclope, ma gremitissima.
Poco dopo, ebbe inizio il film, con sottotitoli in giapponese: una produzione franco-italo-greca che si presentava come To blemma tou Odyssea. Gli allievi nipponici di Ulisse erano spariti, ma blemma non aveva più, per me esausto e smarrito, alcun significato. Intanto, il protagonista, di ritorno in Grecia da un paese lontano, pensava in inglese (oh effimera gioia!); appena sbarcato, però, attaccava a parlare in greco moderno, puntualmente sottotitolato dai misteriosi ideogrammi. Aveva luogo, poi, una vera e propria odissea di costui, alla ricerca di un’antica e preziosa pellicola, attraverso i desolati e desolanti Balcani (anche nel tempo, perché a un certo punto, in un evidente flashback, giungeva assai più giovane in una città che fui fiero di identificare, dai caratteri romani della stazione, come Bucarest). Quindi, si finiva in quel luogo di vergogna che è Sarajevo, dove veniva usato il serbocroato. Capii meno di un quarto di quel film, e soltanto alla fine scoprii con certezza ciò che pure avevo a sprazzi sospettato, e cioè che si trattava del celebre Le regard d’Ulysse di Theo Anghelopoulos e Tonino Guerra, che avevo purtroppo mancato in Italia.
In un mondo come il nostro, mi parve che la mia odissea dell’incomprensione e dell’equivoco alla ricerca di un’Odissea che era l’ombra dell’Odissea – questa avventura di terza mano, riflessa, babelica, comica e tragica, fosse l’unica allegoria possibile di Ulisse come uomo postmoderno. Egli ritornava ora a me da Oriente, come se, giunto dopo cento milia perigli all’Occidente, avesse compiuto l’ultimo volo, saldando le ere e i punti cardinali e ricostituendo la sfericità della Terra.
Cercavo di penetrare in una cultura che conosce bensì il cibo condito col sale, ma non il formaggio. All’uopo, mi insegnavano invano a usare i bastoncini per mangiare. Tentavo di mandare a memoria dinastie e stili. Godevo dell’ospitalità squisita. Desideravo conoscere i pensieri di quegli uomini, nascosti sotto un’impenetrabile maschera di cortesia. Esonerato dall’inchino, sorridevo. Contemplavo attonito i ciliegi in fiore. Provai un piacere intenso alla forma del monte Fuji, Idea platonica, «montità» della montagna. L’amico Shinsuke Ando mi introdusse, a Kyoto, a una dolce geisha («non una prlostituta, Pierlo, ma una dama di compagnia che potrlebbe divenile compagna di giochi»): si chiamava Mamecho, Piccola Farfalla, e ne conservo il biglietto da visita nel Cambridge Pocket Diary di quell’anno. Quando la soprannominai Mademoiselle Butterfly, i miei educatissimi interlocutori risero per alcuni minuti e presero nota. Ci sarebbero voluti dieci anni per comprendere quel mondo.
A Kyoto avevo visitato il celebre giardino zen del Tempio Ryoanji, disegnato tra la fine del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento. È un rettangolo di trenta metri per dieci, circondato da un muro. Il rettangolo è fatto di finissima sabbia bianco-grigia, dalla quale emergono quindici pietre, non alte e dalle forme più diverse. Da qualsiasi punto le si guardi, non se ne possono scorgere più di quattordici. Ci si siede sui gradini di legno attorno al giardino, e lo si contempla. Può apparire come un quadro, incorniciato dal muro di terra. Le pietre sembrano, talvolta, vette di montagne che spuntino sopra le nubi, oppure isole montuose entro un vasto oceano. Se si fissa la sabbia, si ha l’impressione di un mare infinito. Si dice che dovrebbe chiamarsi mu-tei, il giardino del nulla, oppure ku-tei, il giardino del vuoto: invece, il suo nome è seki-tei, il giardino delle pietre. Ogni cosa, nella filosofia Zen, è espressione di una realtà superiore, e i significati del giardino sono dunque assoluti e allo stesso tempo molteplici. Semplice, perfetto, e misterioso, il giardino è uno spazio minuscolo nel quale ci si può smarrire per ore o per giorni: un cosmo intero, che ricorda per sempre l’impossibilità di vedere tutto e che tutto, però, sembra contenere. Valeva la pena di percorrere il mondo per fissare lo sguardo sulle distese del mare, sui deserti della Terra, quando un semplice rettangolo di sabbia e sassi costruito dall’uomo avrebbe potuto placare l’inquietudine in immobile meditazione?
Privo ormai di illusioni, immune – credevo – da altre sorprese, nel viaggio di ritorno mi fermai di nuovo a Hong Kong e raggiunsi Macao. Un amico americano che insegnava laggiù, Don Baker, mi fece da guida per tre giorni. L’ultimo, mi condusse al Museo Marittimo, che celebra le imprese navali di portoghesi e cinesi. Mentre i primi sciamavano verso Occidente e Oriente, i secondi si erano spinti a ovest, verso il nostro mondo: l’ammiraglio Cheng Ho aveva comandato diverse spedizioni, con un’enorme flotta, verso Ceylon, il golfo Persico, il mar Rosso, Zanzibar. Non incontrò i portoghesi, che ancora non erano giunti in India e dovevano poi arrivare in Cina: a Macao, appunto.
La storia è fatta anche di se, pensavo: e certo di appuntamenti mancati. Ma c’era chi non ne aveva perduto proprio nessuno – Ulisse, naturalmente. Il quale, se non prima, era arrivato in Oriente nientedimeno che con Luis de Camões e i suoi Lusiadi, il poema nazionale del Portogallo, composto, pare, fra Goa e Macao, e nel quale Vasco da Gama in persona racconta al re di Malindi, cioè a un marajah indiano, le avventure dell’Odissea. «Credi che tanto si siano per il mondo», chiedeva, parlando di sé, Vasco all’indigeno, «spinti Enea e Ulisse, il facondo?». Cosa, di Ulisse, aveva narrato agli indiani e ai cinesi lui, il poeta, che esalta la fondazione di Ulixabona? Avevo accennato ai Lusiadi ne L’ombra di Ulisse senza apparentemente sapere nulla di tutto questo: perché non avevo visitato Macao, e quel che si legge nei libri non rimane impresso nella mente se non lo si sperimenta nella carne: nihil est in intellectu, dice John Locke riprendendo Aristotele e gli Scolastici, quod prius non fuerit in sensu: nulla è nell’intelletto che prima non sia passato per i sensi.


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