Luca Baldissara, Paolo Pezzino
Il massacro
Guerra ai civili a Monte Sole

 Un brano dal testo

Capitolo III, 29 settembre. La morte sale da est. 6. Casaglia: le testimonianze, il trauma, pag. 163 e seguenti

A Casaglia, per le modalità dell’esecuzione, all’aperto e senza l’incendio di un fabbricato a completare l’opera delle mitragliatrici, e per il gran numero di persone coinvolte, aumentarono le possibilità che qualcuno, ancora in vita, venisse coperto e protetto dai corpi dei caduti, e il numero dei sopravvissuti, soprattutto donne e bambini, è relativamente più alto che in altre località. Le più conosciute, quelle che testimoniarono nelle indagini giudiziarie, le abbiamo già più volte ricordate: Cornelia Paselli, di diciotto anni, e la sorella Giuseppina, di sedici, Lucia Sabbioni, di quindici, Lidia Pirini, di quindici, Elide Ruggeri, di diciannove. Altre non furono chiamate a testimoniare: una bambina di cinque anni, Luciana Sammarchi, Elsa Tugnoli. Le scampate al massacro vissero esperienze estreme, al limite della possibilità umana di rielaborarle, «comprenderle», farle proprie. Nelle carte giudiziarie la descrizione delle loro vicissitudini è secca e sintetica, quasi avesse scarso rilievo, e in effetti poco o nessuno ne aveva per le finalità degli investigatori, quella di individuare gli autori dei vari eccidi. Ma nelle loro narrazioni le esperienze successive a quel 29 settembre hanno un posto centrale, acquistano spessore e carica narrativa, diventano una delle principali componenti della tragedia di Monte Sole. Ferite più o meno gravemente in taluni casi, incolumi in talaltri, avevano assistito alla morte di madri, fratelli o sorelle, ricoperte da cadaveri, intrise di sangue, sporche di brandelli di carne, erano rimaste per ore immobili prima di riuscire a trovare la forza e il coraggio di muoversi e porsi in salvo, senza poter essere aiutate dai pochi che si erano avventurati al cimitero alla ricerca di qualche familiare disperso, ma che avevano dovuto scappare per la comparsa improvvisa di qualche tedesco o per paura, senza perciò riuscire a tirarle fuori, trasportarle in un rifugio, prestare loro le prime cure.
Cornelia Paselli, non appena sentì le raffiche della mitragliatrice, si gettò a terra, e fu protetta dai corpi dei caduti, a pochi passi dalla madre, gravemente ferita: rimase ferma fino alle 16, quando trovò il coraggio di sollevarsi, con l’intento di cercare aiuto per la madre. Non appena uscì dal cimitero, vide alcuni tedeschi rimasti sul posto, e scappò a nascondersi nel bosco vicino. Anche la sorella Giuseppina si gettò a terra appena i tedeschi aprirono il fuoco, e rimase sul terreno per due ore, prima di alzare la testa, ricoperta di sangue, per controllare se c’erano ancora tedeschi. Nonostante non ne vedesse dentro il cimitero, rimase lì, fra i morti e accanto alla madre ferita, per tutta la notte: la mattina successiva, verso le 8, arrivarono alcuni parenti, tra i quali il padre di Elena Ruggeri, Attilio, che le portarono a Le Pudella, dove la madre morì il giorno successivo.
[...]
Lidia Pirini non conferma questo particolare riportato da Antonietta Benni, si limita a raccontare che era coperta dal corpo «di un ragazzo che conoscev[a], era rigido e freddo, per fortuna potev[a] respirare perché la testa restava fuori», stette tutta la notte e buona parte del giorno successivo «senza rischiare a gridare o lamentar- [s]i, perché avev[a] paura, anche se il dolore alla coscia si era fatto insopportabile e non riusciv[a] più a respirare per quelli che [le] stavano addosso. Intorno a [sé] sentiv[a] i lamenti di alcuni feriti». Nel pomeriggio del 30 – continua il racconto di Lidia – arrivò un uomo che trovò la moglie e la figlia morte, ma anche una parente ferita, che «trasportò fuori dal mucchio di cadaveri [...] Mi dimenticai di chiedergli che mi tirasse fuori dalla mia posizione, né a lui venne in mente di farlo». Infine, prima del tramonto, trovò il coraggio di sollevarsi (nel 1947 aveva dichiarato di essere uscita dal cimitero nella mattinata del 30, e di essersi nascosta fino al tramonto in un bosco), e allontanarsi verso Cerpiano, non senza aver dovuto sfuggire ancora una volta ai colpi dei tedeschi, che la presero di mira costringendola a rifugiarsi nel bosco, dove si imbatté in un rifugio antiaereo, trovandovi altri civili.
Elide Ruggeri rimase ferita al fianco destro, e cadde accanto ai corpi delle cugine, della madre, «sventrata, e [di] una madre con dieci figli attorno, tutti morti». Alle 4 del pomeriggio entrò al cimitero la cugina Elena, che si era rifugiata nel bosco e stava cercando la madre e la sorella, senza riuscire a trovarle perché erano sotto il mucchio dei morti. Elide la chiamò, ma Elena non poté fare niente per lei, se non prometterle che avrebbe chiesto a suo padre di andare ad aiutarla. Elena si avviò quindi verso la sua casa, a Le Pudella:

Passai dalla Casetta. C’erano dei tedeschi che stavano caricando dei maiali su di un biroccio. Rimasero sorpresi a vedermi passare accanto a loro: mi avranno giudicata pazza, avranno pensato che la mia fine sarebbe venuta da sé. Non mi spararono, mi lasciarono passare.

La cugina Elide rimase al cimitero per tutta la notte «sotto la pioggia, in un mare di sangue e quasi non respiravo più», e solo all’alba arrivò lo zio Attilio, il padre di Elena, che la portò via (secondo Elena, sarebbe poi stato ucciso dai tedeschi, insieme al fratello Giulio, padre di Elide, tre giorni dopo, sempre a Casaglia: dai registri ufficiali risultano morti il 6 ottobre a Nuvoleto).
L’esperienza di Elide è stata quella della solitudine,

a stare lì un giorno ed una notte tra i morti. Alla mattina presto mio zio mi è venuto a prendere era verso le tre e mezza, mi ha presa a cavalluccio e mi ha portato dove abitavo. Verso le quattro hanno sentito del fruscio ed erano i tedeschi che si preparavano ancora per un’altra azione. Mi hanno sbattuta sopra un materasso lì per terra da sola e mio zio, mia zia ed i miei cugini sono scappati nel bosco.

Forse proprio come reazione alla sensazione di abbandono, Elide Ruggeri ha creduto di vivere un’esperienza eccezionale, che l’avrebbe salvata. Un racconto, il suo, esposto davanti alla corte di La Spezia nel 2006, che va ascoltato nel rispetto dovuto a chi ha vissuto un’esperienza come la sua:

Hanno cessato la mitraglia e da fuori tiravano le bombe a mano, ma parecchie, perché prendevano nella cappella, facevano un gran busso e si scheggiavano, mi ha preso nell’anca che mi era venuto un buco grandissimo e sanguinava; però sono stata in piedi lo stesso, perché sono molto dura, quando dico una cosa è quella. Allora siamo stati un po’ fermi e dopo un colonnello medico ha fatto un gran salto in mezzo ai morti con il fucile, il moschetto. È venuto vicino a me, io ero attorno a dei bambini che c’era la Pirini che ne ha lasciati otto ed il più piccolo aveva tre mesi, una bambina aveva tutto il cervello fracassato e questo colonnello medico l’ha uccisa. Io ho detto: questo altro colpo è mio, uno cosa avrebbe... io ho pensato questo, non ho pensato altro. Ci siamo guardati in faccia tutti e due, lui guardava me ed io guardavo lui per qualche secondo e poi lui mi ha detto che somigliavo – un po’ di italiano lo sapeva – che somigliavo alla ragazzina che ha lasciato in Germania e che non faceva niente kaput e mi ha lasciato un papiro scritto con il suo nome, la città e dove abitava. Io che avevo le magliette col taschino e l’ho messo dentro il taschino, ma lui prendendomi in braccio mi ha messa in una buca distante con un plaid sopra ed io questo bigliettino non l’ho più trovato. Mi è dispiaciuto molto, perché a quel tedesco gli voglio bene perché per me sono stata miracolata.

Il carattere consolatorio di quello che appare un ricordo prodotto per elaborare un’esperienza estrema, inenarrabile, è evidenziato dalla stessa testimone, quando riprende il racconto dal momento in cui era rimasta di nuovo sola sul materasso, abbandonata dai suoi parenti:

Allora io lì da sola, da sola, però non avevo paura, perché avevo sempre questo coraggio che mi aveva fatto questo colonnello medico. Dopo mezz’ora arrivano 30 tedeschi delle SS e mi dicono: «niente kaput». Io sono rimasta soddisfatta hanno rubato tutto il mangiare e se ne sono andati. Dopo verso le nove è arrivato il medico a medicarmi ed a darmi le pillole contro le infezioni, mi ha fatto una puntura, mi ha portato una gavetta di brodo che c’era una gallina in mezzo, tutta roba che noi non abbiamo mai mangiato, però nel momento che erano già due giorni che non mangiavo mi è andata giù, sebbene che non mi piaceva.

[...]
Lucia Sabbioni, al cimitero, aveva in braccio la sorellina di quattro anni, che fu colpita alla testa da un frammento di muro della cappella ed ebbe il braccio destro asportato da una raffica:

Ho visto la mia sorellina che le mancava un pezzo di cervello, un braccio era andato, gli occhi non c’erano, mi sono trovata con un pezzo di carne, non c’era più mia sorella, non c’era più niente. Mi toglievo tutti i resti umani, dico: cosa faccio sono morta sono viva!? Eppure se mi metto ad urlare loro mi ammazzano, io sono ancora viva! E poi niente, tutta questa gente che agonizzava, che moriva piano piano. [Ho perduto in quell’occasione] la mia mamma che aspettava l’ottavo figlio e quindi ho perduto mio fratellino Otello, poi Adriana mia sorella, Giovanna mia sorella, Irene mia sorella, Bruna mia sorella, Desiderio il nonno e Gaetano lo zio, che lui non l’hanno ucciso nel cimitero, ma mentre saliva che cercava di raggiungere suo fratello, mio padre; l’hanno visto e l’hanno freddato.

Lei fu ferita in varie parti del corpo da schegge di bombe a mano, e alla coscia sinistra da una pallottola. Cadde sopra Lidia Pirini, protetta dal corpo di Cleofe Betti, «un donnone gigantesco [...] l’altra sorellina, Irene, rimasta vicino alla mamma, era sventrata, irriconoscibile; la mamma aveva il cranio fracassato».
[...]
La figura simbolo della tragedia di Casaglia è, insieme a don Marchioni, un bambino di otto anni, Vittorio Tonelli, del Possatore, che ritroviamo sia nella commemorazione del primo anniversario, sia nel memoriale di Antonietta Benni, la cui fonte sono Lidia Pirini e Lucia Sabbioni: «era rimasto illeso; uscendo dal cancello e scrutando l’orizzonte rientra e dice forte: “Se c’è qualcuno ancora vivo, scappi adesso che i tedeschi non ci sono più”». Lucia Sabbioni si alza a fatica, esce dal cimitero appoggiandosi a Elsa Tugnoli e alla sorella Vittoria, gli passa davanti, lo invita a scappare. «E il bimbo mostrando la mamma e cinque fratellini e le sorelle morti: “Io voglio morire con loro”». Più tardi uscì dal cimitero e si avviò verso Vado, ma lungo la strada fu ucciso da una granata. Spicca accanto alla sua, la figura di una bimba lattante, rimasta viva fra le braccia della madre, uccisa insieme a nove familiari: «era cadut[a] a terra. C’è chi l[a] ha vist[a] vagare tra i morti movendosi con le gambette e le piccola braccia per terra non sapendo camminare. Pioveva a dirotto [...] è mort[a] dopo qualche ora di fame e di freddo».
Adelmo Benini, dopo avere assistito da Monte Sole all’eccidio, e avere cercato inutilmente di raggiungere il cimitero, perse i contatti con la sua formazione, e vagò per due giorni, insieme al suocero e a un’altra persona, per sfuggire ai tedeschi, «che apparivano scomparivano ad ogni momento ed in ogni luogo». Infine, riuscì a convincere i compagni a recarsi al cimitero: «poco oltre il cancello trovai una scarpa di mia moglie; mi buttai tra i cadaveri e febbrilmente presi a frugare nel cumulo, scostando i corpi rigidi e pesanti». Ritrovò infine la moglie, con una ferita alla fronte:

stringeva ancora le due bimbe fra le braccia, Maria con le interiora che uscivano dal ventre squarciato e la piccola Giovanna priva del capo, strappato da una raffica di mitraglia. Cercai intorno, trovai la testa presso il muro di cinta del cimitero, dove l’aveva fatta ruzzolare il maiale del becchino che grufolava tra i cadaveri; c’era anche la moglie del becchino, ancora in vita, ma con le gambe fracassate. Presi la testa della mia bambina e la deposi presso il corpo, fra le spalle.

Fu richiamato dal suocero, perché si stavano avvicinando dei tedeschi: ripresero a vagare per i boschi, in uno scenario dell’orrore disegnato dalla ferocia tedesca. A Caprara videro tre ragazze legate a dei castagni, con le gonne sollevate e un bastone infilato fra le gambe; nella vigna del Poggio di Casaglia un bimbo di pochi anni con un palo conficcato tra le natiche, piantato nel terreno a mo’ di spaventapasseri; tra Caprara e Villa d’Ignano i cadaveri di due donne incinte, sventrate e con i feti fuoriusciti. In preda al terrore, scavarono una galleria nel pendio di un monte, ne nascosero l’ingresso con un intrico di rovi, e vi vissero per un mese, uscendo «solo la sera, a frugare tra le macerie delle case in cerca di cibo come cani randagi». Dopo aver passato la linea del fronte, Adelmo Benini si unì agli Alleati, combattendo con loro fino al Piave.
[...]
Tuttavia questi particolari macabri rappresentano, per chi li racconta, la «vera» cronaca dell’eccidio di Casaglia: raccontare l’orrore ha infatti una profonda funzione di elaborazione del lutto, e questo spiega perché in tutti gli eccidi si ritrovano particolari orribili, dei quali tuttavia spesso è difficile provare la veridicità. L’individuazione di simboli, immagini, figure e stereotipi della rappresentazione del massacro rende possibile tentare di trasmettere a chi non c’era ciò che per sua natura appare «indicibile», la violenza estrema, il sovvertimento di qualsiasi regola morale, l’assenza di pietà. Solo esemplificando l’orrore in simboli assoluti è possibile condividerlo in qualche misura con altri, uscendo da quella sindrome, che già Primo Levi aveva rilevato per i sopravvissuti della Shoah, che porta a tacere, a chiudersi in sé, nella convinzione che non sia possibile trovare parole sufficienti a comunicare l’estremo che si è vissuto. E fare della propria esperienza un simbolo consente di attribuirle un senso, o per lo meno un ordine logico e sequenziale, un «prima» e un «dopo», caricandola di significati, religiosi o politici che siano poco importa, che la rendano «percepibile» dagli altri, e quindi permette in qualche misura di rielaborarla senza restare bloccati per tutta la vita su momenti che spingono al limite della sopportabilità la solitudine di chi li ha vissuti.


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