Sanremo 2010: una lingua allo specchio

di Giuseppe Antonelli

Riflessi condizionati
Una delle cose che succedono quando si legge il testo di una canzone senza conoscerne la musica è di canticchiarla seguendo un’altra musica, già nota. Così, quando nel testo di Arisa si trova il verso «ma l’amore, ma l’amore no», l’istinto di scandirlo come in una canzone di Arbore («ma la notte, ma la notte no») è quasi irresistibile. È quel fenomeno che i filologi chiamano memoria involontaria: calchi ritmici interiorizzati che ritornano quando meno ce l’aspettiamo. Lo stesso meccanismo porta ad accostare «c’è l’Italia paese di santi / pochi idraulici e troppe badanti» (Cristicchi) a «buongiorno Italia con i tuoi artisti / con troppa America sui manifesti» (Toto Cutugno). Anche perché la Meno male di Cristicchi si adagia comodamente nel filone della canzone ritratto dedicata all’Italia: «c’è l’Italia dei video ricatti / c’è la nonna coi seni rifatti». Dopo L’Italia di Piero, l’Italia di Simone, col suo c’è chi c’è a metà tra il c’è chi c’ha di Frassica e l’who is who (Osama, Carla Bruni, e quello «Sarkonò Sarkosì» speculare all’«Italia sì, Italia no» di Elio e le Storie tese).
In canzoni di questo tipo, l’alternativa all’ironia è rappresentata dalla retorica patriottica: «io credo sempre nel futuro, nella giustizia e nel lavoro», canta Pupo; e gli fa eco Emanuele Filiberto: «io credo nella mia cultura e nella mia religione»; e poi via di credo in credo, fino all’«io, io non mi stancherò, di dire al mondo e a Dio, Italia amore mio» cantato dal tenore Luca Canonici. Toni e accenti che ricordano un po’ Italia di Mino Reitano («Italia, Italia / di terra bella e uguale non ce n’è»), un po’ il cosiddetto “Credo laico” di Forza Italia.
Ad accomunare il brano di Cristicchi e quello di Pupo, la presenza del classico verso puntello: quel verso dall’attacco sempre uguale che viene ripetuto a intervalli regolari e dà al testo una struttura modulare. La si trova, ribattente, anche nel pezzo di Valerio Scanu (quattro volte «tutte le volte che …»; quattro volte «come se un giorno freddo in pieno inverno») e in quello di Jacopo Ratini, uno dei cantanti della categoria «Nuova generazione» («ho voglia di scrivere /… / ho voglia di leggere / … / ho voglia di riavere / … / ho voglia di avere …»).

Di generazione in degenerazione
È soprattutto nei testi dei cantanti più giovani, d’altra parte, che resistono i tratti più stantii, quelli dell’inossidabile ricetta della nonna. I tipici futuri sanremesi, ad esempio, si trovano concentrati – oltre che in Malika Ayane: «una novità sarà / e mi porterà / a non fermarmi mai» – nel brano di Mattia De Luca: «se i tuoi occhi guarderà / se un tuo sguardo capirà / quel segreto che non ha / ora né tempo né età». (Passati pateticamente remoti per eventi decisamente recenti appaiono, per contro, nel testo di Romeus: «perché un minuto prima le giurai convinto il mio amore immenso»). E De Luca largheggia anche con i tipici imperativi imploranti: «ma non guardarmi / … / ma dammi ancora le tue mani»; gli stessi che si ritrovano nel brano del gruppo La fame di Camilla (quel «guardaci / … / guardami» non vi fa venire in mente il duetto Gianna Nannini -Giorgia?). Tra quelli che un tempo si chiamavano “big” e ora si chiamano “artisti”, anche in Marco Mengoni («credimi ancora / prendi un respiro / lasciati andare»), in compagnia – peraltro – di reiterate antitesi parapetrarchesche: «nero e bianco / muovo luce e tenebre per vincere / freddo nel fuoco».
Il cambio della guardia avvenuto dietro le quinte (tra gli autori, ai veterani come Mogol, Bigazzi, Morra che dominavano l’ultima edizione si è sostituita la leva dei Pacifico, dei Tricarico, Francesco Bianconi, Valeria Rossi) ha limitato – in termini quantitativi – il ricorso ai vecchi trucchi del mestiere, ma non è ancora riuscito a far circolare nei testi del Festival un’aria veramente nuova: «le solite scuse, / le solite storie, / bugie, speranze, / a volte l'amore», canta Noemi.
«Ma l’amore è distratto / l’amore è confuso», e appare in quanto tale solo nel brano dei Sonhora: «Baby, dovunque sia il tuo amore t’amo» (il tipo t’amo, scomparso all’inizio degli anni Settanta, è rientrato da qualche anno nelle canzoni come tocco vintage); oltre che – programmaticamente – in quello di Povia: «Mamma papà ora vi vorrei parlare, solamente dell’amore». Per il resto, l’amore compare come appellativo («Amore mio dimmi che mi ami» Cutugno; «Amore santo oh amore in me» Irene Fornaciari) o come eufemismo («vergognarsi appena dopo aver fatto l’amore» Nicolas Bonazzi; «noi coperti sotto il mare a far l’amore in tutti / i modi in tutti i luoghi in tutti i laghi» Valerio Scanu). Nella scorsa edizione le parolacce erano state cinque (due in Masini, due negli Afterhours, una nei Gemelli DiVersi), quest’anno non ce n’è neanche una, e in fatto di sesso si preferisce tutt’al più alludere («lasciami da sola / fallo solo per un po’» Irene Grandi).

Tu ed io, io e Dio
Da sola a solo: e infatti la parola chiave di questa edizione è specchio. La si ritrova in Noemi («mi guardo allo specchio / mi trovo diversa»), nei Sonhora («sei un fuoco tra due specchi»), in Nino D’Angelo («Simmo ’o specchio ’e n’autostrada»). Ma ci si specchia anche nella canzone di Pupo («un’Italia sola, / che oggi più serenamente, si specchia in tutta la sua storia») e ci si riflette in quelle di Cutugno («le tue ragioni con le mie si riflettono su un vetro») e della Fame di Camilla («per trovare un riflesso / che ti assomigli un po’»); implicitamente, anche in quella di Jacopo Ratini: «e guardo gli occhi tuoi / perché negli occhi tuoi si vede il cielo». Tanti narcisi e poche parole di burro: più che lo specchio della lingua, quest’anno il sanremese è una lingua allo specchio. (Qui viene in mente il logo dei Rolling Stones, solo che la trasgressione non c’è: persino i congiuntivi sono quasi tutti al loro posto, tranne uno in Arisa - a volte basta che ci sei – e uno in Cutugno: non esiste che è finita).
Come da tradizione, a specchiarsi tra loro sono il tu e il me («tu per me / sei sole, cielo e lacrime» Luca Marino; «non mi piace sia tu / il centro di me» Malika Ayane) o più classicamente l’io e il tu, come nella coda del brano di Irene Grandi: «io ti dico addio / tu mi dici ciao» (ovvero lo speculare del beatlesiano «You say goodbye and I say hello»). Non sarà un caso che – insieme all’io – l’altro grande protagonista sia Dio: comodo rimante in Arisa («poi la notte prega per paura che anche Dio / scappi e lasci tutto quanto nell’oblio») e in Pupo («sì stasera sono qui, per dire al mondo e a Dio, Italia amore mio»); iperbolico termine di paragone in Irene Grandi («e poi ami con tranquillità / come un Dio lontano») e in Nina Zilli («ami tutte a modo tuo / … /  sei bello come un dio»); enfatico elemento fraseologico in Romeus («Dio sa quanto l’amavo ma l’intero universo mi chiedeva un pegno in cambio»).
Per un nome pronunciato invano, ce ne sono molti altri citati più o meno a sproposito (quelli già visti della canzone di Cristicchi; quello di Eluana, cancellato all’ultimo momento dal testo di Povia) o importati con un po’ di provincialismo (come quelli delle protagoniste di Ruggeri: Mary, Molly e Candy: la lavatrice o la Tarzan tutte lentiggini del cartone?). E poi troppi nomi inventati, specie nella «nuova generazione»: Romeus per Carmine Tundo (scelto dopo aver visto il film Romeo & Juliet, dice in un’intervista), Nina Zilli per Maria Chiara Fraschetta; Jessica Brando per Jessica Vitelli (non che gli eredi di Marlon abbiano avuto grande fortuna); due gruppi come Broken Heart College e La fame di Camilla (che fa un po’ Marlene Kuntz censurato).

Metalinguaggio o linguaggio a metà?
I nomi sono importanti («mi chiami vita perché è il nome mio» Jessica Brando), ma anche le parole – come diceva Nanni Moretti. E allora, eccole protagoniste dei testi: parole («queste parole non fanno rumore» Tony Maiello), parole («perché il vostro cuore vola / vola sopra le parole» Povia), parole («non corrisponde il flusso delle tue parole al battito del cuore» Valerio Scanu): «comunicare comunicare / questa è la parola in cui confido per salvare / una generazione forse anche due forse tre» (Fabrizio Moro).
Siamo nel pieno di quell’atteggiamento di riflessione sullo strumento espressivo che gli studiosi definiscono metalinguistico (quando, cioè, si parla di parole). «È il linguaggio della resa / il suo cuore ormai non spera», canta Tony Maiello; ma quello del Festival potrebbe essere definito anche il linguaggio della presa (che intende far subito presa, al primo ascolto) o della fresa (lavorato con mestiere artigianale) o magari dell’Arisa (intesa come archetipo del grado zero). Perché il metalinguaggio diventa, in questo caso, un linguaggio a metà: di riporto, prefabbricato, sempre preso a prestito. Non è forse un Guccini a metà la canzone dei sei mesi presentata dai Broken Heart College? s’intitola Mesi, ma appunto – a differenza della Canzone dei dodici mesi – nomina solo gennaio, febbraio, aprile, giugno, luglio e agosto.
«Non ci credi che ci ucciderà / questo nostro vivere a metà?», si chiede Irene Grandi tornando su un concetto che aveva già cantato a Sanremo sedici anni fa («non posso vivere a metà / tra illusioni e verità»). È il déjà vu l’effetto dominante nei testi di quest’anno (il déjà écouté, si potrà dire la settimana prossima). Cutugno compendia in due soli versi («verso l’alto più su / dove il cielo è più blu») una lunga playlist che va da Modugno a Renato Zero, passando per Rino Gaetano. E Nino D’Angelo rifiuta la cartolina di Napoli («simmo ’a faccia ’e ’na cartulina / che ce svenne pe tutt’ ’o munno»), ma leggendo un titolo come Jammo jà è inevitabile che ci venga da cantare Funiculì funiculà. Incontrando un «non c’è niente da capire» (Nicolas Bonazzi) non si può non pensare a De Gregori e quando si trova nello stesso testo «tanto è inutile spiegare» viene spontaneo continuare «certe giornate amare» (Ruggeri cantato dalla Mannoia). Altrove lo stesso accade con «siamo come due satelliti» (La fame di Camilla) … «in orbita sul mar» (Righeira) o con «nell’aria c’è» (Irene Fornaciari) … «polline di te» (Umberto Tozzi). Aveva ragione il Gino Paoli di Sassi: «ogni parola che diciamo è stata detta mille volte» (la citazione è il sintomo d’amore al quale non sappiamo rinunciare).

P.S. Canto d’incanto (forzatamente accantonato)
Col suo incedere sinuoso che accompagna lento il calare del crepuscolo («S’apre la sera / … / Ecco la sera / … / Avanti, entri la sera / … / Cade la sera / … / Guarda la sera / scende sicura»); con le sue figure di suono un po’ dannunziane («mentre un raggio di luna rifrange / sulla pioggia che piange»); coi suoi vaghi e suggestivi plurali poetici (monti, genti, campi, orizzonti); col suo richiamo a distanza tra l’incanto («E d’incanto l’identico istinto ci coglie») e il canto («E del tormento allora ci faremo un canto»), il testo di Morgan era – a leggerlo – il più elegante (un piccolo rimpianto).

 

APPENDICE
Le analisi di tre edizioni precedenti:
2006
2007
2008

 


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